Altilia e le sue genti. Il racconto di un lungo viaggio nella storia
di Lucio Fatica – foto di Sisto Bucci
Cosa c’è nelle storie che tanto ci affascina tanto da tenerci col fiato sospeso fino alla fine? Ascoltare storie è un modo che abbiamo per imparare, percepire un sentire comune, conservare la cultura di un popolo. In passato, nelle lunghe serate trascorse davanti a un fuoco schioppettante, ascoltare storie di dèi, di epiche battaglie e di grandi amori era il modo di fare comunità, educare, imparare a orientarsi con le stelle, condividere una morale e il senso del giusto.
Così tra le antiche storie dei pastori che si muovevano sui tratturi tra le Puglie e gli Abruzzi ve n’era una che raccontava di una città di guerrieri dalla quale questi ultimi, un giorno, partirono per una nuova guerra e la città era rimasta lì, nella pianura, attendendone intatta il ritorno.
Così è Altilia, nome medievale di un luogo unico. Noi siamo abituati a città diverse, a quei luoghi che si chiamano periferie; per i Romani esisteva ciò che era città e ciò che non lo era. Edificare le mura, tracciare un perimetro è un atto magico, religioso, prima di essere un’opera di ingegneria per quanto ardita. La fine di Remo, ucciso dal fratello per l’atto empio di saltare il solco d’aratro con cui Romolo consacrava il territorio di Roma, lo dimostra bene.
Saepinum, nella pianura, è la città romana. Sulle alture, verso il Matese, si può ammirare quel che resta della più antica città sannita Saipins. Sempre sulle alture, ma più a Est, c’è la moderna Sepino.
Il senso del recinto, qui, è fondamentale: Saepio, in latino, significa recintare. Cos’è che si recinta? Ciò che è importante, ciò che è sacro. La sannita Saipins era sulle alture per ragioni di controllo del territorio e di difesa; la romana Saepinum è città di pianura. Vivere in pianura è più facile, più comodo, ma per vivere in pianura c’è bisogno della premessa della pace, di un governo stabile e del controllo militare del territorio. Nemmeno i terremoti, qui frequenti, indeboliscono questa città che li affronta con tecniche antisismiche ancora oggi interessanti; ma quando l’impero cade sotto la pressione barbarica e con esso il sistema economico agricolo e tratturale, si torna ad abitare in altura, in quella che è l’odierna Sepino. Grande impresa, quella di Tiberio e Druso, di riportare la civiltà in un territorio martoriato. Qui, prima le sanguinose Guerre Sannitiche, poi il passaggio di Annibale, il sospetto di azioni di pulizia etnica preliminari alla deportazione delle popolazioni liguri e infine l’odio di Silla, per quanto di sannita fosse rimasto, avevano impoverito questa parte del Sannio. Nuovi cittadini, nuovi coloni, ridistribuzione dei terreni, ripresa della transumanza… questa città racconta della rigenerazione di un territorio e della sua economia; un significativo esempio di relazione tra uomo e ambiente, di modello di sviluppo sostenibile e rispetto della vocazione territoriale che insegna ancora molto.
Anche se è possibile arrivare comodamente in auto, il mio consiglio è di raggiungere Altilia a piedi, arrivando da Ovest. Si giunge a un’inaspettata porta, di fronte alla quale è naturale fermarsi, osservare e immaginare come poteva essere questo luogo qualche millennio fa. Qui, nel piccolo Molise, siamo al cospetto della grande Storia, non solo italiana ma europea. Siamo davanti alla celebrazione delle imprese del giovane e futuro imperatore Tiberio, del fratello Druso, della guerra contro le popolazioni germaniche e dalmate. Le altre porte dovevano essere simili, a giudicare dai frammenti che si possono ancora osservare spesso incastonati in costruzioni successive, ma è di fronte ai prigionieri barbuti fissi nella pietra, al volto di Ercole (a cui questa porta è stata consacrata), alle torri e alle mura che si percepisce il senso fisico e sacro di un’antica città romana.
Un po’ pare strano che dall’alto delle torri nessuno chieda di farci riconoscere; che non si sollevi la grata di questa porta e si aprano infine le controporte verso la città. No. Ora abbiamo libero accesso, fisico e visivo, al percorso del decumano, la via principale che conduce nel suo centro. Camminiamo sul basolato vecchio di duemila anni, tra bassi recinti di pietra che un tempo furono abitazioni, botteghe, negozi. Ci sembra di sentire, giunti al macellum, le voci dei bottegai che, invitando a comprare, sciacquano le verdure nella fontana. Procediamo fino ad arrivare al Foro con i suoi templi e palazzi un tempo porticati, la Basilica e il grande lastricato.
Il cittadino romano, anche se si occupa ormai di commercio, di agricoltura e di allevamento è stato prima un soldato, e lo rimane per tutta la vita. La sua è una città militare, dove tutto è pratico, regolato, efficiente. È il modello del castrum, l’accampamento per le battaglie: una palizzata di legno, con quattro porte ben presidiate; due assi principali, il cardo e il decumano, che dividono lo spazio in quattro quartieri dove sono, appunto, acquartierate le truppe.
Al centro, all’incrocio dei due assi viari, la tenda del comandante, del questore, del pretore; il grande spazio per l’adunata dell’esercito, l’altare per i sacrifici e le divinazioni. Così si fa un accampamento e così si fa una città, ma una città è fatta per durare e per viverci, non solo per sopravvivere a una campagna militare. Così ci sono spazi e luoghi anche per il lavoro e il commercio, per il tempo libero, per le rappresentazioni teatrali, per la cura del corpo e dello spirito. Le attività sono condotte nella piena libertà del cittadino romano, ma tutto è rispettoso della disposizione urbanistica, del decoro urbano, degli allineamenti.
Nel Foro (centro della città) possiamo immaginare i momenti più chiassosi e significativi: i comizi elettorali, le celebrazioni dei grandi eventi dell’Impero, le feste civili e religiose, le parate militari e le adunate del contingente che da lì partiva per partecipare a una nuova guerra, con donne e ragazzi che, dall’ombra dei porticati, osservavano i soldati con i sentimenti più diversi. Ogni centro di città è un centro del mondo. Da qui sono percepibili le vie per le quattro porte e verso le quattro direzioni: la porta verso Bojano e poi Isernia e Venafro, dritta verso Roma; nella direzione opposta la via verso Benevento. A Nord la porta verso la pianura, con la via che si diramava verso il mare dalla quale arrivava il sale, e la via per Lucera, porta delle Puglie e dell’Oriente. A Sud la porta verso la montagna, da cui arrivava il legno per costruire, il carbone per cucinare, prodotti come carni e formaggi che avevano bisogno del freddo per conservarsi e stagionare. Da qui, attraverso valichi montani, si arrivava facilmente a Telese o a Capua.
Saipins, Saepinum, Sepino… città del recinto o città dei recinti, forse anche pensando ai recinti che nella pianura si costruivano quando giungevano mandrie e greggi per la transumanza, o quando si riunivano per la ripartenza. Ma se allarghiamo cuore, occhi e orizzonte, scopriamo che tutta la pianura di Sepino è un enorme recinto, un luogo reso sacro dalle relazioni umane. Per millenni gli animali erbivori hanno percorso questi luoghi alla ricerca di acqua e pascoli. Mi piace immaginare che Comio Castronio, che secondo la leggenda guidava i primi Sanniti qui giunti, si sia visto arrivare un giorno del primo anno mandrie e greggi condotte da pochi pastori.
C’è da fantasticare che quella sera vi fu consiglio: il più spavaldo dei Sabini consacrati a Marte propose a gran voce di assalire i pastori e impossessarsi del bestiame, ma Como Castronio disse «No! A noi appartengono l’acqua e i pascoli e abbiamo anche armi e guerrieri per proteggere il bestiame da lupi e orsi». Così, la sera successiva, Sanniti e pastori si ritrovarono attorno allo stesso fuoco per celebrare una collaborazione che, avviando scambi e relazioni, avrebbe consentito ai Sanniti di sviluppare una potenza tale da permettergli di essere, per molto tempo, gli antagonisti di Roma.
E proprio qui, nella piana di Sepino, per due volte all’anno, quando cioè le greggi arrivavano e quando ripartivano, vi era festa. Si scambiava carne, formaggio, lana e finanche prezioso letame con verdure, attrezzi e vestiti. Si ringraziavano gli dèi, ci si fidanzava e si mescolava il sangue. Il Molise ha conosciuto nella sua storia alti e bassi, ma i momenti alti hanno sempre corrisposto a periodi caratterizzati dal buon uso del territorio. Sul finire della giornata non dimentichiamo di ritornare verso porta Bojano. Da qui potremo sicuramente godere dei colori di un tramonto spettacolare, con un pensiero a quei soldati di guardia che, chiudendo le porte, proteggevano la città dagli aggressori e dagli spiriti della notte.